Ultimo Giorno Di Un Condannato A Morte

Il silenzio, un denso brodo nero che si rapprende negli angoli della cella. Un silenzio rotto solo, occasionalmente, dal raschiare lugubre di un topo o dal rantolo lontano di un carcerato in preda a un incubo. Ma questa notte, anche questi suoni, di solito così familiari, sembrano impastarsi in un'unica, assordante muta.
Sono qui, seduto su questa branda di paglia che mi ha fatto compagnia negli ultimi mesi. Mesi che si sono contorti, deformati, allungati a dismisura come se il tempo stesso si fosse piegato alla mia imminente dipartita. Guardo la flebile luce che filtra dalla minuscola feritoia della finestra. Una luce spettrale, quasi irriverente, che danza sulla pietra fredda delle pareti e che sembra voler penetrare nella mia anima, strappandone gli ultimi brandelli di umanità.
E’ l’alba del giorno stabilito. L’alba del giorno in cui la mia esistenza, con tutti i suoi errori, le sue passioni, le sue speranze, verrà brutalmente troncata. L’alba del giorno in cui diventerò un numero, una statistica, un monito per gli altri.
Ho cercato, con tutte le mie forze, di ripercorrere il cammino che mi ha portato fin qui. Ho cercato di individuare il punto preciso in cui la mia vita ha preso una piega sbagliata, il momento in cui la mia mano si è macchiata di un crimine imperdonabile. Ma il ricordo è una bestia sfuggente, che si nasconde dietro un velo di nebbia, lasciandomi intravedere solo frammenti distorti di verità.
Forse è stato l'ambiente in cui sono cresciuto, un ambiente di violenza e deprivazione, dove la legge era un'entità astratta e lontana, e la sopravvivenza dipendeva dalla forza e dall'astuzia. Forse è stata la rabbia, un fuoco che mi divampava dentro, alimentato dalle ingiustizie e dalle umiliazioni subite. O forse, semplicemente, sono nato malvagio.
Qualunque sia la ragione, il risultato è lo stesso. Sono qui, condannato a morte, in attesa del boia.
Ricordi di una Vita Passata
Cerco di aggrapparmi ai ricordi, di farli rivivere nella mia mente come se fossero ancora reali. Ricordo il volto di mia madre, dolce e preoccupato, mentre mi accarezzava i capelli e mi raccontava storie di un mondo migliore. Ricordo le risate dei miei amici durante le interminabili partite a carte nel cortile polveroso della mia infanzia. Ricordo il calore del sole sulla mia pelle, il profumo dei fiori in primavera, il sapore del pane fresco appena sfornato.
Ma anche questi ricordi, un tempo così vividi e consolanti, ora mi appaiono sbiaditi e lontani, come se appartenessero a un’altra persona, a un’altra vita. E mentre cerco di afferrarli, mi sfuggono inesorabilmente, lasciandomi solo con l’amaro sapore della nostalgia e del rimpianto.
Sento dei passi che si avvicinano. Pesanti, cadenzati, inesorabili. Sono loro. Sono venuti a prendermi.
Il cuore mi batte all'impazzata nel petto, come un uccello in gabbia che cerca disperatamente di liberarsi. Respiro a fatica, sentendo l'aria mancarmi nei polmoni. Le mani mi tremano incontrollabilmente.
Cerco di trovare la forza di alzarmi, di affrontare il mio destino con dignità. Ma le gambe mi cedono sotto il peso della paura.
La porta della cella si apre con uno stridio sinistro. Due guardie, con i volti inespressivi e gli occhi freddi, mi fissano.
"Alzati," dice uno di loro, con voce roca.
Obbedisco, meccanicamente. Mi alzo, barcollando leggermente, e mi lascio condurre fuori dalla cella.
Percorriamo il corridoio silenzioso, illuminato da fioche lampade a gas. Sento gli occhi degli altri carcerati addosso. Sguardi di pietà, di curiosità, di disprezzo.
Arriviamo alla cappella. Un prete, con il volto segnato e gli occhi pieni di tristezza, mi aspetta.
"Figlio mio," dice, prendendomi la mano, "prega Dio per il perdono dei tuoi peccati."
Mi inginocchio accanto a lui e cerco di recitare una preghiera. Ma le parole mi si confondono nella mente, e la mia voce si spezza per l'emozione.
"Padre nostro..." riesco a sussurrare, a fatica.
Dopo la preghiera, mi portano nella stanza della ghigliottina.
La vedo. Alta, imponente, sinistra. Uno strumento di morte preciso e inesorabile.
Il boia, con il volto coperto da un cappuccio nero, mi aspetta.
Sento un brivido percorrimi la schiena.
Mi legano le mani dietro la schiena.
Mi spingono verso la ghigliottina.
Mi costringono a inginocchiarmi.
Mi mettono la testa nel ceppo.
Sento il freddo metallo sulla nuca.
Chiudo gli occhi.
Un ultimo pensiero, un ultimo desiderio: rivedere il volto di mia madre, sentire il suo abbraccio, udire la sua voce.
Ma è troppo tardi.
Sento il rumore sordo della lama che scende.
Il buio.
Le Ore Precedenti: Un Resoconto Dettagliato
Dalle nostre fonti all'interno della prigione, siamo stati in grado di ricostruire con minuzia le ore immediatamente precedenti all'esecuzione. Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, non c'è stato alcun cedimento isterico, nessuna supplica disperata per la grazia. Il condannato, fin dal primo mattino, ha mostrato una rassegnazione stoica, quasi apatica. Ha rifiutato la colazione, limitandosi a bere un sorso d'acqua. Ha rifiutato anche la visita del cappellano, almeno inizialmente. Solo verso le sei del mattino, quando ormai l'alba iniziava a rischiarare il cielo, ha acconsentito a un breve colloquio.
Il prete, visibilmente scosso dall'imminente esecuzione, ha cercato di confortarlo, parlandogli della misericordia divina e della possibilità di redenzione anche nell'ultimo istante di vita. Il condannato, però, sembrava impermeabile alle parole del religioso. Ha risposto con monosillabi, con brevi frasi che tradivano una profonda stanchezza e un senso di inevitabilità.
Un dettaglio interessante, riportato da una delle guardie, riguarda un piccolo oggetto che il condannato teneva nascosto sotto il cuscino. Si trattava di una vecchia fotografia, sbiadita dal tempo, raffigurante una giovane donna. La guardia, spinta dalla curiosità, ha chiesto al condannato chi fosse la persona ritratta. Il condannato ha risposto, con un filo di voce: "Mia moglie". Poi, ha voltato lo sguardo, come a voler nascondere le lacrime che gli rigavano il volto.
Dopo la visita del cappellano, il condannato ha chiesto un foglio di carta e una penna. Ha scritto una breve lettera, indirizzata a una persona sconosciuta. Non sappiamo quale fosse il contenuto della lettera, né a chi fosse destinata. Sappiamo solo che, dopo averla terminata, l'ha piegata con cura e l'ha consegnata a una delle guardie, pregandola di farla recapitare.
Il Silenzio Dopo la Tempesta
Dopo l'esecuzione, un silenzio tombale è calato sulla prigione. Un silenzio che sembrava gravare su ogni cosa, su ogni persona. Gli altri carcerati, nonostante la loro consueta turbolenza, si sono chiusi in sé stessi, come se avessero paura di spezzare l'incantesimo. Le guardie, di solito così inflessibili e severe, hanno mostrato un'inconsueta umanità, evitando di parlare tra loro e limitandosi a svolgere i propri compiti con scrupolo e diligenza.
Il corpo del condannato è stato sepolto nel cimitero della prigione, in una tomba senza nome, come era consuetudine per i condannati a morte. Nessuno è venuto a piangerlo, nessuno ha portato un fiore sulla sua tomba. Solo il vento, sibilando tra le croci di ferro, sembrava sussurrare una preghiera per la sua anima perduta.
Questo è il racconto, il più accurato e dettagliato possibile, dell'ultimo giorno di un condannato a morte. Un racconto che ci invita a riflettere sulla giustizia, sulla pena di morte e sulla fragilità della condizione umana. Un racconto che, speriamo, contribuirà ad alimentare il dibattito su un tema così delicato e complesso.









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